MODALITÀ: NO HUMANS
A cura di Massimo Sgroi
Quando la visone immaginifica del futuro si ribalta sul progetto a brevissimo termine, l’angoscia psichica dell’umano del terzo millennio prende il sopravvento sulla retorica della Bellezza. Più che salvare il mondo essa diventa estroflesso paesaggio del vuoto dell’anima sedimentando angosciosi strati della previsione della catastrofe, ciò che porterà il pianeta alla modalità No Humans.
Paradossalmente in un mondo dominato dal web l’umano perde la capacità di pensare in termini collettivi isolandosi nel pensiero individuale nell’attesa del punto di non ritorno. La sublimazione del desiderio non si manifesta più in termini attrattivi o come assecondamento della pulsione erotica, essa diventa piuttosto distruttiva, violenta, aggressiva e prigioniera (vedi il problema pandemico, ad esempio) di regole precodificate da altri. E la coscienza etica diventa aggressione verso l’avversario.
Nell’equivoco di fondo che si crea in una simile condizione sociale, l’ambiente, la problematica della protezione del nostro ecosistema diventa “altro da noi” quando, al contrario, è parte integrante della nostra stessa esistenza; come il bambino sopravvive grazie al sacco amniotico materno, allo stesso modo l’essere umano esiste in quanto simbionte dell’intero sistema che lo circonda. Come sosteneva Jean Baudrillard, già molto tempo fa: “Il peggio non è che siamo sommersi dai rifiuti della concentrazione industriale e urbana bensì che noi stessi siamo trasformati in residuati”. La specie umana, mirando all’immortalità virtuale (tecnica) sta perdendo la sua particolare immunità”.
In tutto questo siamo tutti consumatori schizofrenici di merce, di status symbol pagati attraverso il caro prezzo della distruzione ambientale; il liberismo selvaggio si nutre di estetica, feticcio malata dalla ridondante necessità di creare nuovi simulacri di potere. Bisognerebbe smetterla di essere ologrammi di noi stessi sacrificati sull’altare di una scienza solo fintamente positiva e che prevede la visione reversibile della dicotomia causa/effetto.
In tutto questo che senso ha ancora l’arte visuale? Ha, ancora, la potenza di svelare l’inganno o è, piuttosto, l’appiattimento formale sul corpo ibrido della visione estetica neoliberista? Cioè, per tornare al Delitto perfetto del filosofo francese: se la realtà è accelerata dalla tecnologia, che la spinge verso le sue più estreme e paradossali conseguenze, allora il pensiero deve essere più veloce e più paradossale della realtà stessa. Detto con le sue parole: “Bisogna prendere in trappola la realtà, bisogna essere più veloci di lei”. Ma l’arte, oggi (per lo meno nella sua parte di sistema) altro non è che l’estensione visuale e formale dell’immanente sistema finanziario; essa ne assume le forme producendo la merce feticcio (spesso copertura per il riciclaggio e la creazione di fondi neri) figlia barocca del cosiddetto “capitalismo perfetto” (di cui parla Karl Marx nel terzo libro del Capitale) ovvero quella che produce denaro senza generare né merce né cultura ma solo simulacri auto riproducenti.
Nel mondo sottoposto alla oscura teosofia del denaro (ovvero fine a se stessa) di questa forma di società globalizzata l’artista può essere ancora un detonatore di un accadere che rompa questa geometria dell’assioma teratologico del pianeta o, almeno, come sostiene Gerhard Richter, a consolare? La risposta è sì, a patto che essa viva e si produca al di fuori delle rigide regole del sistema. Sono le cosiddette “isole di libertà” in cui è ancora possibile essere radicali rispetto alla immanente egemonia economica culturale. L’arte riscrive i suoi segni, le sue strutture linguistiche spesso in maniera inconsapevole ma, non per questo, meno potente.
In questa mostra abbiamo piegato il codice linguistico e segnico, appunto, rendendolo funzionale al progetto che, come una Gestalt, va al di là della sommatoria delle singole opere. Il progetto che contiene, nelle scatole cinesi dell’evento l’una dentro l’altra, la narrazione, le funzione estetica percettiva visuale e la concettualità stessa delle opere; come un sistema strutturato come la codificazione onion del programma Tor (per usare l’onnipresente linguaggio cibernetico) lascia libero lo spettatore di scendere dentro le profondità installative della mostra stessa fino a percepire, da sé, la terribile condizione che mette il pianeta Terra nella modalità: No Humans.
E, così la trasgressione paradigmatica dell’accumulo di memorie di Helene Pavlopoulou rappresenta l’attualizzazione del mito della Caverna di Platone; la metafora delle ombre di realtà rilegge la nostra memoria appiattendola sulla parete del virtuale. Come sulle pareti della caverna di Platone, l’opera della Pavlopoulou è solo la rappresentazione del reale; attraverso un cromatismo inverso l’artista greca sovrappone il reale al virtuale, la materia all’impalpabile. La dea Mnemosyne torna a ri-velare il suo volto cancellando, forse per sempre, l’assioma comune del ricordo come a significare che non esiste memoria se non c’è nessuno a ricordare.
Ma se è vero che tutto ciò che è solido è destinato a svanire nell’aria, allora il corpo dell’umano, il volto, lo sguardo ed il pensiero stesso si trasformano in fantasmi evanescenti come nel lavoro di Federica Limongelli. Una sottrazione, attraverso la sua pittura elettronica, dell’accumulo di realtà che è il vero presupposto alla sparizione dell’umano. Umano che attraversa, nella sua sostanza fantasmatica, i luoghi in cui la specie morente ha costruito la sua magnificenza; è il corpo che invade il paesaggio e non il contrario.
Ed allora l’appartenenza fisica viene soppiantata dalla complessità multimedialica dei mondi elettronici attraverso i quali non abbiamo più identità, siamo, semplicemente e completamente extracorporei ed extraterritoriali. Güler Ates costruisce così i suoi eidola colorati, simulacri di una esistenza ormai persi nella struggente risposta di una uscita dal mondo. Nella mistica della visione contemporanea, l’esistenza stessa di un messaggio e di un codice che lo rappresenta implica l’esistenza stessa di un codificatore che altri non è che l’artista turca stessa. Güler Ates, partendo dalle architetture, finisce per essere costruttrice di mondi.
Ed è da questa uscita dagli spazi che nasce il mondo pacificato nell’ambiente naturale di Suzanne Moxhay, laddove le tracce dell’umano vengono lentamente cancellate dal processo di sostituzione. Lo stesso riferimento ad una pittura arcadica dell’artista inglese, ne identifica la necessità paradossale che per abolire la schiavitù dell’umano dalle pulsioni teratologiche sia obbligatorio cancellare l’umanità stessa. E se è vero che la logica degli umani, nel suo spostarsi di continuo verso le alterità tecnologiche, ha assunto un atteggiamento distruttivo verso ciò che è memoria ed ambiente naturale, essa non può che presupporre una definitiva pacificazione attraverso la sua assenza.
È questo il presupposto per garantire la sopravvivenza del pianeta laddove il gigantismo delle forme diventa tragitto surreale verso la definitiva riappropriazione del sé come avviene nelle opere di Barbara Nati. L’eccesso irreale delle forme naturali che seppelliscono sotto la sovrabbondanza di forme le poche tracce rimaste; è il compimento della teoria della sparizione dove l’umano non sparisce sotto un eccesso di realtà elettroniche ma, piuttosto, verso una realtà aumentata della stessa natura. Il media landscape delle immagini della Nati si trasforma nel concetto heideggeriano dell’abitare il mondo laddove le tracce e non più la presenza ne rappresentano i simulacri del suo passaggio.
Questa sintesi formale è, allora, premessa per il progetto di Jean Michel Bihorel; nel suo lavoro gli elementi naturali non muoiono, si gonfiano, piuttosto, fino all’eccesso spiazzando le relazioni visive fra l’arte del reale e l’estensione che il digitale consente. Ciò che appare, alla fine, è una super realtà possibile in cui il grande programmatore finisce per essere la Natura stessa. Nell’opera di Bihorel tutti i media finiscono per essere funzionali ad un progetto surreale in cui la concezione omocentrica finisce sepolta sotto la cornice infranta del pensiero come forma definita.
Natura che, all’estremo limite finisce per trasformarsi in un groviglio mutante di elementi astratti come nel lavoro di Simon Reilly. La forma trascende se stessa, si aggroviglia cancellando completamente la premessa formale dell’umano, il ciclo diventa completo, la struttura si polverizza e nel farlo crea le condizioni per una nuova palingenesi figlia di un’entropia assoluta del pianeta. La funzione corporea si perde, quasi dissolvendosi, all’interno dell’elemento naturale proprio attraverso i cromatismi che lo richiamano. E l’immaterialità della visione è l’elemento centrale della dissoluzione.
Reilly diventa la necessaria premessa, allora, al lavoro di Patrick Jacobs; le installazioni dell’artista americano sono delle aperture verso i mondi dell’alterità, laddove forma estetica e struttura formale del paesaggio si trasformano in ricerca estetica dal valore metafisico. L’essere al centro di questa nuova funzione estetica significa identificare il luogo, inteso come landscape dell’alterità, come detonatore dell’accadere artistico, rendendolo relazionale alla mutazione della visione. Reale e più del reale che, attraverso l’entropia del sistema natura, diventano ricerca di Bellezza, quella funzione estetica che a noi, imprigionati sulla superficie del pianeta, viene quasi sempre fisicamente negata ma che è possibile nel mondo del sogno. Perché, in fondo, noi siamo e restiamo dreamers.
Nella condizione di consapevole ibridazione della natura l’umano, quindi, sceglie la presunzione di essere creatore egli stesso, manipolando la terra e gli esseri che ci vivono; questa follia degenerativa si rappresenta, simbolicamente, nel mulo, l’animale che l’uomo crea e che, senza l’intervento umano, non sopravviverà non potendosi, infatti, riprodurre. Il mulo diventa, allora, la metafora della nostra stessa esistenza ridelegando all’umano la scelta di far continuare a vivere il pianeta o di distruggerlo del tutto. Una assunzione di responsabilità prima che la natura stessa rifiuti definitivamente quello che lo scrittore americano Philip Dick definiva:
“Fragile, bipede, senziente e parassita del pianeta Terra”.
Massimo Sgroi