Miho Tanaka
Into the Din
dal 23 Maggio 2025
Opening 23 Maggio, h 11:00 – h 19:00
Into the din. Di scarto e ripetizione nella pratica artistica di Miho Tanaka
Di Marta Ferrara
Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle
vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste
delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.I. Calvino, Le città invisibili, 1972
Din: sostantivo inglese.
Traducibile più o meno in frastuono: un rumore forte, sgradevole e prolungato.
Oppure un verbo: instillare, inculcare, martellare.
Far apprendere o ricordare (a qualcuno) un’idea tramite ripetizione costante.
Una tazzina, un cucchiaino, un piccolo piatto piano e un piatto fondo. Miho conserva questo nella credenza di questa casa assolata. Una forchetta, un cucchiaio e un coltello. Semplicemente questo.
Mi viene da sorridere, quasi imbarazzata, pensando ai cassetti e ai ripiani colmi a casa di mia madre. Miho alza le sopracciglia, divertita, quando vede che ho comprato un intero set di ben sei tazzine. È nella semplicità delle poche cose – e nella cura delle stesse – che si orienta in questo nostro pieno, caotico e involontario occidente mediterraneo. È uno stare placido, il suo, in un mondo nuovo che sta affrontando, anno dopo anno, creando raccolte e tessendo trame bianche: gentilmente stando tra gli altri e le altre, ascoltando.
Era una bambina nata riccia – una caratteristica rara in Giappone dove la maggior parte delle persone ha capelli lisci – in un contesto in cui mantenere l’armonia sociale all’interno del gruppo è fondamentale. Miho me lo racconta quando iniziamo a prendere confidenza, e posso quindi riportarlo tenendo a mente alcune fotografie che mi ha mostrato. Mi parlava delle sue prime opere, realizzate all’Accademia di Belle Arti di Tokyo, come piante senza acqua.
Un viaggio dal Giappone l’ha portata qui, una vacanza lunga in Europa che si è poi trasformata, una volta rientrata a casa, in un desiderio profondo, quello di stare e provare a immaginare una nuova vita.
Miho è un’artista che lavora la pietra, la affronta e la plasma. Ne gestisce con maestria le forme, ora rigide, ora morbide. Vive a Napoli da cinque anni, attraversandone il frastuono e adottando uno stile di vita in cui la produttività non è tutto, tutto, tutto. Così mi ha detto parlando della sua scelta di essere
qui. A Napoli, Miho si muove con passo quieto. Osserva molto, parla poco. Ha trovato un equilibrio, sempre precario e fatto di tanti ostacoli, in questa città piena di curve, suoni e contraddizioni: è molto distante da una precisione e da un ordine da cui sembra quasi essere fuggita.
Miho, però, è pienamente e in maniera manifesta qui a Napoli; ha solo scelto un’altra via, senza vergogna. Man mano, ascoltando se stessa e mettendo sotto la lente di ingrandimento la sua pratica artistica, scopre quotidianamente aspetti della sua cultura d’origine che inconsciamente permeano ed
emergono. Dopo il trasferimento in Italia, ha iniziato ad avere un rapporto di scoperta verso i luoghi che percorre; questo nuovo approccio alla ricerca ha apportato dei cambiamenti anche nell’utilizzo di differenti medium, che fino a quel momento si fermavano alle pietre dure. Sperimenta ora con i materiali classici della scultura, accompagnandosi spesso con elementi di scarto trovati nel corso di esplorazioni urbane, da lei chiamate passeggiate. È attratta dalle superfici che portano i segni del tempo. Il suo lavoro è diretto, paziente. Spesso lavora in silenzio, seguendo gesti che si ripetono fino a diventare naturali. Come una scrittura che si fa a mano, lentamente; un processo, continuo, che tiene insieme pazienza e intenzione. Into the din è allora il modo di stare dentro il rumore senza farsene travolgere. Una soglia, più che un manifesto. Una pratica che lega discrezione e presenza. Un modo di essere che riguarda la produzione artistica di Miho qui in Italia.
Miho tesse. Senza telaio, senza ago, intreccia pietra e carta, fili e frammenti. I suoi gesti e i suoi percorsi non sono mai del tutto lineari: si muovono in avanti e poi tornano indietro, si annodano al tempo, lo scrivono in diagonale.
C’è un filo bianco che attraversa le sue opere. A volte è reale, un cotone teso che avvolge, protegge, copre, come nella serie About objects (2021-2025). Sculture in cui elementi urbani, trovati e raccolti, vengono ammantati da un chiaro ordito caotico: sanpietrini, frammenti di colonne, pietre pesanti
diventano superfici leggere. Un modo per l’artista di conoscere gli oggetti nella loro forma, peso, consistenza, celandoli però a chi li guarda attraverso tessitura e ricamo. Furono proprio questi, per le condizioni di generale lontananza dalla cultura scritta, l’unica forma di scrittura per molte donne nel corso della Storia e oggi Miho usa la poesia e l’intreccio così: strategie intime e particolari per conoscere il mondo. La sua è una notazione spaziale e temporale insieme: lineare nella scrittura, sintetica nella lettura. Scrive nel tempo, si legge nello spazio.
Così anche Untie (2025), un’installazione temporanea composta da coriandoli in terracotta bianca legati con filo rosso, ci parla di questo. Ogni piccolo pezzo può essere staccato, portato via. In cambio, si può lasciare un pensiero, un desiderio, una parola scritta su carta: un gesto che richiama l’omikuji
(御御籤), la pratica giapponese degli oracoli scritti, appesi ai rami nei templi per evitare che la sfortuna segua chi li ha ricevuti. I coriandoli si legano per liberarsi, e si sciolgono per lasciare andare. Come nella parola giapponese antai (安泰): tranquillo, senza preoccupazioni, stabile. Ma anche:
sciogliere, slegare, risolvere.
Le opere della serie Westscape (2021-2025), invece, appaiono come frammenti preziosi – sculture composte da pietre dure incastonate con cocci di ceramica raccolti per strada, sulle spiagge e in campagna, come mappe intuitive di città interiori, trovate nei viaggi e nelle esplorazioni del nostro
paesaggio occidentale. Tra un’osservazione e l’altra, Miho mi racconta dei pavimenti in legno delle case nipponiche, quelli sui quali gli oggetti non si rompono ma rimbalzano. Dopo aver raccolto un frammento, inizia la ricerca della pietra in cui incastonarlo. Questa viene scelta per assonanza o
dissonanza cromatica e di forma e per la preziosità a essa associata dai suoi utilizzi nei nostri monumenti. Il frammento diviene gioiello, lo scarto assume valore estetico e la ceramica rotta torna ad avere funzione e proprietà quasi talismanica. Nei Westscapes. One Side (2024-2025), questi stessi
frammenti divengono composizioni pittoriche, costellazioni di memoria e territorio. In tutto il lavoro di Miho Tanaka c’è una tensione costante tra il gesto intimo e lo spazio collettivo. È come se ci dicesse che abitare il mondo può significare anche semplicemente toccarlo con cura,
annodare e disfare, lasciare e prendere, come fanno i bambini con i loro giochi più seri.
Nota a margine.
Il presente testo critico è il risultato di una serie di conversazioni tra la curatrice Marta Ferrara e l’artista Miho Tanaka. Il racconto si sviluppa quindi come una riflessione condivisa, che intreccia le parole dell’artista con la lettura critica delle sue opere.
Biografie
Miho Tanaka (Yamanashi, 1998) è un’artista giapponese che vive e lavora in Italia. Sperimenta con i materiali classici della scultura, accompagnandosi spesso con elementi di scarto trovati nel corso di esplorazioni urbane, da lei chiamate “passeggiate”. Dopo aver studiato scultura alla Musashino Art University di Tokyo, nel 2020 si trasferisce a Napoli per continuare il suo percorso artistico presso l’Accademia di Belle Arti, conseguendo il diploma accademico in Scultura. Tra le recenti mostre e occasioni espositive: L’eterno femminino ci attira in alto accanto a se, Galleria Rubin, Milano (2024);
Quartiere Latino 4, condominio – museo d’arte contemporanea, opera site specific, Napoli (2023); DEGREE SHOW 3, premio dedicato agli artisti emergenti, Palazzo Monti, Brescia (2022); Altre esposizioni significative: The National Art Center, Tokyo (2020); MABOS Museo d’arte del Bosco
della Sila (2021)
Marta Ferrara (Napoli, 1999) è curatrice e critica d’arte le cui ricerche riguardano gli artisti che lavorano con le comunità, con la didattica e con le pratiche artistiche site specific e community based, con una particolare attenzione alla scena artistica emergente italiana. Collabora in maniera indipendente con enti culturali pubblici e privati per la curatela, il coordinamento e la gestione di progetti d’arte contemporanea. Tra questi il Museo Madre, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, La Biennale di Venezia, la Fondazione Made in Cloister, la Fondazione Morra Greco, la Galleria Alfonso Artiaco. Dal 2022 co-cura il progetto Quartiere Latino museo condominio d’arte contemporanea a km 0. È cultrice della materia di Didattica Museale all’Accademia di Belle Arti di Napoli, presso cui ha svolto anche i suoi studi.